, le luci della
notte spolverano la spiaggia di scintille nella via percorsa a piedi da pedoni
in giacche scure, nel viavai di macchine e taxi, ronzio mormorato, le finestre
un poco accoste sugli scuri, per vedere un filamento, di tessuto inanimato, spargersi
come polline in un’oasi, un samovar dentro una yurta, ravioli di montone, una
pecora squartata, cieli blu e notti d’abisso, nere come oro dopo un rito,
infinità sondate dalle profondità dell’occhio, così fredde e limitanti,
istantanee sviluppate, embrioni espulsi come flussi di spermatozoi diretti in
fogna, vite brevi e necessarie, chissà, forse un giorno potrei essere stato
anch’io un’idea, o un pensiero di qualcuno che cagava in una turca e non c’è un
collegamento, è tutto fuori, non c’è scelta, se non si prende, si prenda per
lasciarsi, si lascia un segno, che continua a interferire in chi dopo ci dà il
cambio, testimoni di una bara dentro un fosso, i ghigni le lacrime, le lacrime
i ghigni, si ghigna e si gagna, si gagna e si perde, il senso si perde, si
gagna e si perde, una madre getta il figlio nel forno, un cavallo ruba i soldi
a un camallo, chi lo legge dirà: doppio fallo, vi dirò, conoscevo gianrico, non
era bello né un tipo, tirava di dritto, semplice e mai scontato, spesso
scontato nella sua imprevedibilità, gravitava attorno al mondo dei sinti, di
giorno giostrai, di notte banditi, si chiamava così perché aveva rapito, nel
millenovecentottantotto, il figlio dell’imprenditore ramiro ortense, gianrico,
dal sequestro aveva ereditato anche il nome, assieme a otto anni di buia, buia
nera, fredda e violenta, gianrico passò la divisa e divenne la troia di un
tipo, gli succhiava le palle la notte prima di farsi spaccare le chiappe dal
bruto e quando uscì fuori dal gabbio era frocio, una tutta strippata di cazzo e
frou-frou, una checca, i giostrai, padre e madre lo mandarono via, gli amici e
i fratelli non lo avevano più, se ne andò a milano, dove si mise a lavorare per
dei palermitani, si faceva sfondare dai ricchi imprenditori, che lo chiamavano
shirley o sue ellen, ma quando seppero che era sinti, lo emarginarono e lui si
adattò a vivere nella chinatown, arrangiandosi con il piccolo spaccio e qualche
pompino, gli zulu parlano lingue incomprensibili, i berberi vendono olive
piccanti al mercato, false guide ed impostori pretendono di farsi pagare il
vitto dai turisti, impossibile negare, si passa da razzisti, e allora vi si
passa, sulla tomba di genet, con i quattro candelabri cupolino di cemento, il
cane abbaia e due giovani, bambini, mi seguono nel tour del cimitero, mi
regalano fiori gialli e fili d’erba, il marocco scorre lento, costa niente, un
dirham per un filone di baguette, tre per tante olive da riempirsene la pancia,
il pranzo è fatto, un litro d’acqua per riprendersi dal salso e poi al caffè
della medina bianca e azzurra, al mercato vendono di tutto, maglie usate e
libri vecchi, scarpe in pelle di cammello ed articoli di legno, sotto i portici
arrostiscono pesci e gamberetti, vecchie accucciate dietro a mazzetti di menta
si nascondono il viso con il velo della veste, è natale e nessuno se ne accorge
nel reame del marocco paradiso, mangi bene, stanze a poco, discreta polizia,
accondiscendente, dalla strada un ossessivo ritmo tecno, come proveniente da
autoradio, ma persistente, vociare dal passeggio concitato, motorini di
passaggio, qualche fischio sul brusio, ho incontrato un ceramista, ci parlavamo
in un misto francoinglese, con incursioni nel dialetto e l’italiano,
distinguendo a malasorte le cazzate da scambiarsi, un tunnel nel deserto platini,
una palma, un pazzo per la strada, arso dalla fiamma, e pupo, con “su di noi”
remixata a palla, nemmeno una favola, lenzuola negre a fiori, sacco a pelo di
rigore, alla tomba di genet ho scattato foto, ho giocato coi bambini fra le
tombe di ammiragli, il compianto sgretolato sulla pietra, croci smangiate di
cemento e su tutto l’erba verde, tenera e rigogliosa, coperchio del
disfacimento, dell’eterno divenire e morte ai morti, finché i vivi sono vivi, e
ancora e tutto quanto, un cuore batte piano, si ricorda di ogni battito passato
e lo riporterà in siria, dove il gioco è ripartito, tra le dune e i narghilè
nella kasbah di damasco, vive un giovane violento, senza legge né famiglia, un
singolo impaurito col coltello infilato nella cinta, un opinel, regalo di
ramon, aveva in cuore di sposare rachida, ed ella, che non lo conosceva,
desiderò negargli la sua mano, il giovane la sgozzò senza ritegno, la baciò da
morta e la gettò dietro una mura, da quel giorno il suo cuore diventò liscio
come il ghiaccio e qualsiasi impresa gli sembrò abbordabile, ora sorseggia un
caffè, all’angolo di rue beirout, al café detroit, gestito da uno zio della sua
vittima, si chiede quale sarà il prossimo colpo, ha appena razziato un pollaio
e domani venderà trenta chili di droga a un danese, probabilmente qualcosa
andrà storto e gli sbirri lo sbatteranno in galera, o forse riuscirà a fare un
po’ di quattrini, e continuerà la sua parabola ascendente nella sottocultura del
crimine, si tatuerà un fiocco di neve o una mannaia sull’avambraccio, proverà
l’eroina e rischierà l’overdose, per una pera di speed, poi un giorno, davanti
alla fontana di place de l’officine, alle due di pomeriggio un uomo scende da
una macchina scura, gli spara a bruciapelo sulla nuca, con una trentotto a
tamburo, e finisce di scaricargliela addosso mentre è a terra, lago di sangue e
cervella, poi risale in macchina e scompare, nessuno ha visto niente, nessuno
lo rimpiange, certe vite finiscono così, non come quella di kimi hikkonen,
l’uomo più vecchio di finlandia, con i suoi centoventisei anni tra i boschi e
le conifere, o come sammy orwell, pluridecorato recordman delle west indies e
insignito della gran croce al merito dell’impero britannico per alti meriti
sportivi, oltre che morali, memorabile il suo record di mille runs segnate, in
una serie di test matches contro sri lanka, e come non ricordare qasim zoukri,
imbattibile mezzofondista, olimpionico negli ottomila e nella maratona a città
del messico, tutto a casa nostra, la mafia a cortina, la banda maniero, zeno
bertin detto richitina, silvano maritan, stilitano, nel veneto ricco e tonto, i
malviventi addestrati dai confinati si associavano con profitto, si
ammazzavano, estorcevano, predavano e su tutti lui, felice, faccia d’angelo,
freddo come un cuneo di metallo piantato nel culo, furbo e falso, pronto a
tutto, ammazza i rizzi e li sotterra, ammazza a colpi di badile, più spesso di
pistola oppure mitra, la rapina nelle vene, imporsi con l’uso delle armi e del
terrore, il gusto per l’azione, la pianificazione delle azioni, i travestimenti
da falsi finanzieri, l’evasione numero uno, il capolavoro numero due, la
materna condanna di eterno anonimato, che non gli ha mai toccato i soldi in
svizzera o in lichtenstein, o al sole delle cayman, ci si sveglia la mattina con
l’aureola sulla testa e si va a fare colazione, il passeggio il lunedì è vuoto
fin dalla mattina, qualche taxi rattoppato gira pigramente sfiorando gli
scolari con la cartella sulle spalle, qualche donna in giro per la spesa, fa
freddo, un freddo secco, che ti fredda le mani senza entrarti nelle ossa,
qualcuno ispeziona un cassonetto, si sa mai, potrebbe celare un tesoro
inaspettato, la camera d’aria di una bici, mezzo panino ancora sano, un po’ di
plastica da rivendere, finché arriva il camion dei rifiuti, un modello
riciclato d’occidente, un attrezzo colore mandarino, vecchio di vent’anni,
affidabile massiccio come le cose di una volta, come i guaritori berberi,
venditori di polveri colorate e uova di struzzo, unguenti miracolosi e flauti e
suonatori di tamburi sulla piazza protetta dai bastioni color rame, lunghi
corridoi asfaltati di meknès, senza prospettive, imbuti dell’incombere, file di
alberi di arance, arancio come i cachi e addosso palme, belle donne marocchine,
profumate emancipate, cascate di linee fluenti i capelli scuri o con le mèches,
fuseaux spessi e attillati, sovente neri, stivali alla moda occidentale ma
baldracca marocchina, un giacchetto di lana a coprire il culo e anche no, una
coppia di italiani va a passeggio, sono assieme da poco, è il primo viaggio
insieme, sono tutto uno sdolcinamento sussurrato, una paura tremenda di
conoscersi, sono tenerissimi nel loro vagare sentirsi assieme, belli, li
incontro nel pomeriggio e poi la sera, di ritorno nella piazza, respiro smog
dei taxi, meknès angolo di mondo ritagliato da un balcone di una foto in bianco
e nero, un angolo di strada, la ruota di un carretto, i fiocchi di un cavallo,
una donna con le arance, ferma immobile per sempre, non ho detto la ringhiera,
trama nera e sottile marcata in controluce, netta, le spalle dello scuro, una
chiusa per metà, l’altra aperta, spalle al muro, i due innamoratini si
preparano per la scopata marocchina, com’è diversa la vita oltre gibilterra,
come sarebbe stato se gli australopiteci, anziché migrare in europa, se ne
fossero rimasti in africa, avremmo forse ottenuto degli homo sapiens che
suonano il bongo, mangiano banane e non fanno la guerra? la migrazione degli
australopiteci è all’origine di tutti i mali moderni, un merdoso sgambetto del
destino, è chiaro, quando si viaggia con una donna, bisogna rinunciare al
piacere della pensione sordida, spartana, con vista sulla strada più trafficata
del centro e i bagni in comune alla turca, senza sciacquone, non si addice ad
una coppia in vena di effusioni e l’essere in terra straniera non fa che
aumentare il bisogno di intimità, meglio allora un hotel col bagno in camera e
lenzuola di bucato, tra gli impacci e le sempre più audaci schermaglie, i due
cominciano a fare sul serio, lui grufolante le si attacca alla folpa, ben
rasata preventiva, complimenti, grandi slappi e svenimenti, lei ricambia,
pompino discreto, non lo fa nemmeno venire, tanto che lui si scazza e decide di
montarla, calza il goldone e comincia a martellarla, la monta da stallone, pure
troppo, lei ci sta per un pochino, poi gli dice di calmarsi, per tutta
risposta, lui le chiede di incularla, un momento di terrore, il culo no, pensa,
nel culo non lo voglio, ma lui le allarga per bene le gambe e dopo averle
sputato sopra il buco, assesta un colpo e dopo un altro, la ragazza caccia un
urlo, uno strazio di vagito, lui le schiaffa il cuscino sulla faccia e piccona
come un fabbro, prima di venirle tra le chiappe muggendo come un toro, poi va
in bagno a ripulire l’arma, sporca di merda, sangue e sborra, ritorna nella
stanza e la ritrova come l’ha lasciata, riversa con la faccia affondata nelle
coltri, grandi coccole, lui fa il tenerone e lei sente un sorriso sorgere dalle
profondità del suo intestino, origina nel suo stesso dolore e l’invade di
allegria, improvvisamente realizza che prenderlo in culo è la cosa più bella
del mondo, la più preziosa, sorride al suo carnefice e un poco storta va a
ripulirsi del macello, il prosieguo della vaganza andrà bene, ma si lasceranno
un mese dopo in italia, quando lui la sorprende in una delle sue scappatelle
anali, divenute irrinunciabili, sulle rovine di volubilis un trono scolpito nel
mosaico di colonne e massi erratici, cascami dell’impero, fine per i posteri,
simulacri della transizione su in medina, e tomiko, in giappone mi ci fico,
ulivi sui crinali, contorti e dolcemente aggrappati, adagiati dai millenni,
l’unico minareto rotondo di tutto il marocco, piccolo e verde, completamente
scolpito in bianchi caratteri arabi, un panino nella shawarmeria più solitaria
di tutto l’atlante, al piano superiore porta aperta su una turca, sottotetto
tavolini da bisca o puttanaio, panino disgustoso anche se preparato con tanto
amore da un nonno affettuoso con i suoi clienti nipotini, quanti ne ha
imbottiti per gli studenti al termine di una giornata di scuola, quanto
pomodoro avranno visto le sue mani, quanta lattuga, cipolla e polli, tagliato,
impastato, fabbricato, panino servito su cestino negro lurido bastardo e
macchie panna, il suo colore originario, due fogli di carta candida a ricoprire
la sconcezza, e ‘sto panozzo mezzo freddo ed umidiccio, dall’esame risulta
presente anche il riso, cucinato chissà quando e ficcato nel pastone, se non mi
cago addosso accendo un cero a dio, lo smog che respiro a badilate dal balcone,
stabilizzerà la salute del mio intestino? dalla quale non dipendono certo i
destini del mondo, ma che non sarebbe di così grande intralcio alla mia
pulciosa vita da farmela apparire irrilevante, un gatto non entra da solo nel
sacco, se nell’offerta non è presente una preda, la ragazza, dopo essersi fatta
beccare dal suo ragazzo in una situazione che definiremo indecente, fa lo
stesso lavoro di sempre, aiuta una sua amica nella gestione di un lavasecco,
nel tempo libero, continua l’esplorazione delle infinite possibilità sessuali
che la sua mente e il suo corpo hanno da offrirle, attualmente è in pieno
sadomaso ascendente, finora ha sempre preferito il ruolo di schiava, ma tra un
po’ sarà pronta per la prima esperienza da padrona, lui è un manager, membro
del rotary di bosco di sacco, gestisce due aziende di pulizie, è negli appalti
di ospedali, stazioni ferroviarie ed impianti sciistici, apparentemente etero
ed inseparabile dalla moglie, è pronto ad adorare come una dea quella giovane
lavandaia, conosciuta per caso al ristorante, da lei si farà finalmente
sottomettere, calpestare, umiliare come non potrebbe mai fare sua moglie, con
la quale deve, anzi, rivestire un ruolo particolarmente autoritario, la
signora, pur non essendo ninfomane, pretende abbondanti dosi di cazzo, un
giorno forse coinvolgerà pienamente anche lei nelle sue fantasie, ma per il
momento è la giovane lavandaia il veicolo del suo piacere, con lei sborrerà
come non ha mai sborrato prima, soffrendo, arriverà a farsi mettere le mollette
sui coglioni, a farsi schiaffeggiare il cazzetto, una volta, il lazzarone si
molletterà le palle di prima mattina, su ordine impartito via sms, e terrà la
molletta per tutta la durata di una conferenza da lui presieduta, inutile dire
che alla fine, dovette andare a casa a cambiarsi le mutande, anche qui, gente
che corre a piedi lungo una strada trafficata, perché non li fermano, non è un
tentativo di suicidio? non quando il beneficiario è consenziente, gli va dato
atto, da questo punto di vista il sistema giudiziario marocchino è molto
chiaro, basta saper leggere, mica è complicato, i fattorini delle pizze girano
su cinquantini a marce, niente scooter, prendono la salita per bab el mansour e
si confondono nell’oleoso concerto di camion e vocio, non è colpa mia se il mio
scritto fa schifo, troppo strampalato, ermetico, incompleto, inutile, io mica
voglio scrivere, non sono in marocco per scrivere, sia chiaro, è la mia mano
che impugna la penna e si trasformano, si fondono e incidono la carta, in
distorta connessione col cervello, il risultato lo si legge, nella piazza
sudata di marrakech, da mille anni si tengono concerti in beri beri
improvvisati, stregoni e imbonitori in abito da sera, vestiti casual, in tuniche
azzurrine col capo avvolto in drappi color cielo, polverine, strumenti a corda
e percussioni ipnotiche di bacchetti battuti delle pelli accarezzate dei
djembé, finti incontri di boxe tra volontari casuali, senza limiti di peso, ho
visto un bel medio tenere a bada un nervoso peso piuma e fargli anche un poco
male, se si azzarda ad attaccare, mentre il secondo era una merda, una finta
colossale, nemmeno una danza, tanto le mosse erano affettate e telefonate, due
amici che si prendono un caffè con su i guantoni, mi schifo, lascio qualche
soldo e me ne vado, offro la cena a tre bambini, dio boy scout, sulla
bancarella, anzi sull’unica bancarella con tavolini stile giap, vegetariana,
servono zuppa di dhal speziato indiano e pane, da quando l’ho scoperto, il piscialavandino
è una sicurezza, un lavabo in camera sa prestarsi a molti usi, quasi da
considerarlo un fattore determinante nella scelta di una stanza, il
piscialavandino è un elemento chiave, la sua presenza un asset, viva il
piscialavandino, specie se bello orizzontale, ancora e così sia, fa freddo qui
alla notte, gelo no, col maglione anocra ancora, difficile immaginarsi altrove,
in tanzania minacciati da un leone, a ground zero, a new york, minacciati da un
poliziotto o da un fottuto rapper che quel giorno decide di pretendere rispetto
da voi, e vi ficca due pallottole nel cuore giù nel bronx, o a sidney, o a
oslo, o a shangai, a nuova delhi, a caracas, a cochabamba, a guadalajara, a
guayaquil, a freetown, a port au prince, un dito medio si erga necessario: fuck
you united states of america and your american fucking dream, un melone, un
pomodoro e due banane vanno al mercato e incontrano una prugna, vado di fretta,
dice la stronza, ma il melone le rotola addosso e la tiene ferma, le due banane
se la fottono a turno, il pomodoro guardone fa foto, la prugnetta stuprata non
denuncerà mai l’accaduto, che anzi in cuor suo, ricorderà sempre come una
grande botta di vita, le due banane erano entrambe sieronegative e non
portavano in dono alcuna malattia venerea, una di loro sarà mangiata dal figlio
di un ricco imprenditore del nord est, l’altra marcirà in un cassonetto prima
di arrivare all’impianto di compostaggio, la prugna diventerà un’autentica
sunsweet e delizierà il goloso palato di una mantenuta cinquantenne, amante dei
rubinetti firmati e i cazzi neri, il pomodoro continuerà a fare foto, qualcuno
dice gli ebrei devono morire, essi sono il male in perenne attesa dell’anticristo,
altri denigrano la foga iconoclasta dei sacri avieri musulmani, materiale da leggenda
e li vorrebbero annientare col diserbo, io non sarei drastico a tal punto,
siamo tutti piezz’emmerda abbandonati sotto il sole, controvento, la sabbia
dentro gli occhi, l’acqua troppo calda, il vino troppo freddo, il machete
troppo poco affilato, scannare è scannarsi, scannateve ‘sto cazzo, se proprio
avé a scannà, me potesse pijà na paralisi facciale, oggi ho visto omar sharif,
stava arando un podere con il suo asinello, vi giuro, era lui, catapultato da
chissà quale entità di celluloide, avverso alla malasorte, che lo ha preso a
balia fin da piccolo, asfissia neonatale, volo da un secondo piano con
atterraggio su un cuscino di primule a due anni e altri sgambetti che non dirò:
il figlio procreato alla prima esperienza sessuale e conseguente matrimonio
riparatore, il tumore al capezzolo, che lo priverà di uno dei suoi prediletti
recettori del piacere, l’incidente in cui ubriaco investì una scolaresca,
falciando diverse generazioni appartenenti alla fascia medio-alta della
borghesiadi casablanca, moriranno nell’incidente, il figlio di un avvocato, il
primogenito del proprietario del caffè sultan, la giovane figlia di una
giornalista dell’exprimés, due maestre, ridotto alla bancarotta dai
risarcimenti, vive facendo il contadino, vicino a marrakech, vende al mercato
patate, lenticchie e pomidoro, campa di quello e qualche royalty dei film,
osama bin laden sta sorseggiando un aperitivo analcolico, a washington, con lui
sono kissinger e bush padre, nonna barbara sta cucinando una bella grigliata di
porco, stanno escogitando un nuovo piano per mantenere alto il prezzo del
greggio, al piano superiore, diverse troie attendono di essere chiamate in
causa, bin laden è completamente senza barba ed ha anche il capo rasato, è
irriconoscibile a sua madre, con gli impianti che ha sotto agli zigomi e il
mento limato da un chirurgo della cia, eppure per scopare si travisa con una
maschera di pluto, per evitare che si sappia, barbara sa delle troie, è una
brava donna del sud e sa starsene al suo posto, è una vita che george la
tradisce e adesso che lui non è più in grado, non le dà tanto fastidio se una
giovane avvoltoia gli si attacca alla proboscide, per provare a spremerne
qualche goccia di rugiada pergamena, kissinger invece scopa ancora, con l’aiuto
di abbondanti libagioni di viagra, robe che prima o poi farà un infarto, ci
lascerà la pelle mentre travestito da schutzstaffel, si incula una californiana
biondo grano, e la cnn dirà, è venuto meno all’affetto dei suoi cari nel suo
letto, è andato a dormire la sera dopo avere giocato coi nipoti dei nipoti e
non si è più svegliato, niente aquile bipenni, niente cappelli da nazista,
niente svastiche, ma la sua tomba sarà profanata più e più volte dai no-global,
e i parenti degli allende coinvolgeranno il cile a festa, alla notizia della
morte del dio boia con gli onori della storia più ufficiale, quella falsa e
riportata sui fascicoli di scuola, hugo chavez si farà i gran cazzi suoi, lui
sa bene, che morto un porco subito un altro ne nasce e a bella posta per fargli
il culo come una capanna, l’ecuadoriano correa tirerà un bel rigone di bamba in
segno di vittoria, mentre il falso negro obama penserà ad un nuovo modo di
inculare la sua gente passando poi per santo, protettore degli afflitti,
ballerino paraculo, quaderno scritto mezzo in nero e mezzo in blu, finché c’è
penna, tra un poco la blu mi lascerà, per il momento continua infaticabile la
sua eroica lotta di spotacchio, sputa inchiostro tra le linee sottili, in
violetto quelle più marcate alle quali si appoggia la scrittura inchiostrata e
si dipana nella sua ermetica incoerenza, fili d’attimo imprestato, fili di
ultimi respiri, niente naviga sul grano, mi ricordo i tempi in cui potrò dire
avevo un sogno, l’ideale mi sovrasta, mi scotenna nel sollazzo di una crisi, un
discorso inanimato d’essaouira la ventosa, tira vento forte e caldo, trovo
alloggio in un mercato, trovo il marocco più pulito, bello visitare un sito
d’interesse e trovarlo privo di cartacce e cocacola, come sempre accade in
india, gente cordialissima, così magari domani si esce di prima mattina e in un
vicolo ancora gravido di notte, farsi sgozzare da un balordo, per resistere a
un lavoro da due euro, un rasoiata tirata tanto per tirarla, che invece ti
scanna come al mattatoio, e la tua vita finisce così, con un gattino che si
china ad assaggiare il tuo sangue in un vicolo di merda, come ovunque mi si
porti a digrignare, un asciugamano morto come una medusa pornografica che
pende, visioni in sottofondo da abbaiare, il pavimento a scacchi, neanche una
ventola sul soffitto, il suo profumo oggi, per un momento, lontane lontananze,
fari sul mare mosso di domani, ondeggiamenti foschi, rollio d’ansiosità, la
morte ti viene a parlare nel rumore di un secchio riempito per sciacquare il
cesso, è così che vorrei morire e che il mio corpo venisse dato in dono ai cani
e ai vermi di qualche terra sconosciuta detta camera d’albergo, mi spiace un
po’ per l’oste, la rottura di beccarsi il morto in camera, proprio nel mio
hotel, magari malandato, beccarsi la polizia in casa per due giorni, mica
bello, nemmeno nella morte si riesce a fare pace, profumo di pagine
inchiostrate, sto scrivendo la diciannovesima, il quaderno inizia ad assumere
le forme di un essere vivente, in contemporanea fase di crescita ed
invecchiamento, le pagine scalfite dalle penne punta fine, acquistano la terza
dimensione e sono ruvide, ne accarezzo i rilievi e le rientranze, mi ci perdo
per un po’, ho un piede congelato, mi metto su i calzini, luce fredda da lampadina
a risparmio energetico, letto che cigola, sinfonia di cani, una solitudine dal
senso dell’ego, un diamante nascosto che brilla, i cui raggi irradiano fame, e
la peste dai monti silenti, cala una notte coi primi bacilli, le spore bubbone,
tempo due mesi ed è strage, interi clan seccati di peste, le bestie, i somari,
la fiata vigliacca si abbatte su fès, è il milleseicentoquaranta, i due terzi
degli abitanti diventano storia recente, i sano riparano a meknès, altri si
spostarono a ketama, dove ancora oggi, vengono indicati, tra i fabbricanti di
hashish, con un aggettivo che si potrebbe tradurre con “pestiferini”, a
ricordarne amorevolmente la provenienza, il loro hashish è buono anche se dal
boccato un po’ aspro, il pestiferino è noto, quello autentico, le famiglie
produttrici se lo tengono per se e si dice che lo uniscano a dell’oppio, al
momento di realizzare il panetto, l’oppio lo coltivano in limitate quantità in
una località impervia alle capre, controllata ventiquattro ore al giorno, è
chiamato il salto del morto, in quanto difficilmente chi ci passa per sbaglio
ne esce sulle sue gambe, il simbolo con cui marchiano il loro hashish da strada
sono i cinque cerchi delle olimpiadi mentre il loro non presenta nessun segno
di riconoscimento, i pestiferini non usano svuotare le sigarette e riempirle
con la mista di hashish e tabacco, fumano esclusivamente pipe ad acqua che
chiamano affettuosamente “spaccaculi”, specie se fumate durante il mese di
digiuno, un giovane praticante di surf con risultati imbarazzanti, rimorchia
una giovane australiana, lei si è appena laureata ed è partita per un viaggio,
è già stata in indonesia e nel sud della thailandia, ha fatto scalo a phnom
phen prima di atterrare al parigino charles de gaulle, sulla rue de montmartre
incontrerà said, una piccola canaglia, mentre tenta di rubarle il portafogli e
da lui si farà convincere a raggiungere essaouira, il surfista ha solo una gran
voglia di farsela, non prova sentimenti, lei nemmeno, lo usa solo come animale
da compagnia, o coniglietto, in attesa di fare un vero incontro, un architetto
dadaista, un maniaco sessuale, un santo o un delinquente, una donna con le
palle, il the perde dolcezza al secondo bicchierino, mentre qualcosa si muove a
casa bush, trambusto ai piani superiori, una mora col caschetto nero lupa, esce
di corsa fuori da una camera, tutta nuda, ha una coda di cavallo che le pende
dal culo riempito da un cuneo di gomma fluorescente, kissinger ha tirato fuori
degli elettrodi durante il primo petting e lei si è spaventata, ha una crisi
isterica, scende le scale ed esce dalla villa in cerca di scampo, barbara la
vede e lascia fare, ci penserà la sicurezza a darle eterna pace, la catturano
ad un chilometro dal ranch, ancora dentro alla proprietà, un elicottero
l’attende, volano per quindici minuti, fino alle paludi di quart creek e la
scaricano da un’altezza di una cinquantina di metri, con un paracadute di
saluti, in una zona di ripopolamento della specie dei caimani, risultato
assicurato, le spagnole coi turbanti mi ricordano israele, forse credono di
essere a beyrouth, forse in india e tu le riconosci da lontano, come le signore
affamate che senza ritegno ti squadrano dalla vita in giù e già ti hanno
radiografato, lunghezza, circonferenza e inclinazioni a cento metri di distanza,
vagabonde, mangiare ottimo cous cous e tajine di pollastro un tempo vivo
scorrazzante, come il gufo liberato a marrakech da una coppia in crisi di
francesi sui cinquanta, lei magrissima, alta e mora, si muove su stivali di
cuoio chiaro, fuseaux di lana nera, lui gran brutto ma pieno di grana, cercano
di dare una scossa al loro menage, fatto di cene al ristorante e scambi di
coppia, con dieci giorni in marocco per ritrovare la poesia dell’innamoramento,
troveranno invece le loro distanti solitudini, libereranno il gufo sulla piazza
jeb el fna e regaleranno la gabbia a un accattone, mangeranno alle bancarelle e
lui perderò l’erezione sul più bello, dopo essersi fatti massaggiare in un
hammam e una cena con vista sul buio pesto dell’oceano, silenzi e ricordi paralleli,
senza intersezioni, il lungo trascinarsi, la paura di lasciarsi, un single
impenitente, in odore di omosessualità latente, descrive ampi giri di contatto
coi tramonti in divenire sul riverso della spiaggia d’essaouira, prende una
lezione di kytesurf e quasi si sloga una spalla, atterrando sulla cresta
dell’oceano, abbandona dopo un’ora, rischiando la polmonite e una diarrea al
fulmicotone, i due cinquantenni non lo incontreranno mai se non il giorno dopo
la scopata andata a vuoto, la tensione provata col suo uomo, si trasforma in
sfrenata brama sessuale è lei è un radar, fa la barba ai camerieri e ai rastoni
ai lati della strada, ha una gatta nella pancia e lui le parla di cazzate,
perché non ha altro da dirle, monologa aspettando come un cane un cenni di
risposta, lei ha fame, finirà con una sega fatto in bagno a mano lesta, una
rapina senza grano, di prima colazione o come quella volta che un giovane,
gigolo alle prime armi, portò fuori un’autentica macchina da guerra, una
quarantenne da palestra con gli ugnoni di pantera con brillanti, divorziata e
indemoniata, dopo la cena, in un noto ristorante del centro, la serata prosegue
al clubb 55, quattro salti e poi diretti in bagno per prendersi un anticipo,
limonata selvaggia e toccamenti, quando lei gli tira fuori il cazzo, lui non
resiste e quasi uggiolando emette quattro potenti fiotti che imbrattano il
tubino nero inferno della ladra, un idrante inferocito, lei si incazza, ma
neanche tanto, lo prende a complimento, in camera si rifarà con gli interessi,
non gettare i rifiuti per strada, dice la copertina del mio quaderno, il
destino non mi ha fatto incontrare un taccuino nero, così scrivo su un quaderno
da scolaro, perché tanto ho da imparare, evitate un consumo eccessivo
dell’acqua, com’è bello il francese ed anche uno stato in cui si vive
liberamente senza liberismo, c’è ordine, nonostante le ingiustizie sociali e lo
stato di dignitosa povertà delle masse macellate, ho dato un occhio alle
offerte immobiliari, c’è di che farci un pensierino, si sa mai come dovessero
mettersi le cose in italia, un posto tuo, fuori dalle grandi rotte delle guerre
commerciali, un filone di pane un dirham, trecento cinquanta euro una stanza
per novanta giorni, faccio i conti col visto, gatti ovunque, neanche un cane randagio,
i felini sono i signori dei souq, girano indisturbati forti delle loro
inferiori prospettive, tra caviglie, borse interno pesce e mente freschi, ruote
di carretti o su scalini, adagiati come sfingi o stiracchiati, sornioni,
all’erta, pronti a riattivarsi, bianchi a pezze sopra le tettoie, in compagnia
o gattoni solitari senza un occhio, con in bocca un filo d’erba e un po’ di
barba sotto i baffi, un caffè su un tavolino un aperol corretto al gusto
amianto e un bicchiere di borgogna, scarpe nere luccicanti, il gatto alla
migliore prospettiva, appostato, discretamente, sotto i tavolini in attesa che
un boccone cada, di azzuffarsi ai cassonetti non ne ha voglia, il vecchio gatto
senza un occhio e il filo d’erba la sfanga diversamente, bazzica i cortili e i
ristoranti, ovunque senta un profumo che gli aggrada quando ha fame, vi si
fionda con prudenza in sicurezza, scruta un po’ la situazione prima di prendere
la scena, osserva se vi sono cani nei paraggi, neanche un piccolo chihuahua,
scruta la presenza di altri gatti e il loro status, se tutti i semafori sono
verdi, si abbandona all’azione e non c’è storia che lo possa raccontare,
possiamo solo intravvederlo, sotto un portico rasente un angolo, il più scuro,
la sua ombra disegnata sui mattoni color fango, tra gli odori di cucina e degli
scarti buttati via dei cuochi il vociare concitato, ali e le sue zuppe
delicate, il piccante tajine di aziz il turco, esiliato da istanbul sul
bosforo, quando un giorno ti vedrò non sarò più ceneri di un altro vienimi a
portare via con me, con te vedrei le stelle nei portoni, un cappotto corto e le
mani sopra il culo di pantalone a sigaretta e sentore di nicotina sulla lingua
nel quartiere degli ebrei, dove le donne dirimpettaie spettegolano e parlano
male del ristorante di aziz, che dicono è solo una copertura e che in realtà li
si spaccia la droga, mica hashish e marihuana, robba vera, provenienza kash
antalya, aziz il ristoratore, il campione regionale di couss couss, a volte
messo comunale, aziz il furbacchione, gran sorrisi e tanto taglio, rivendeva
sciacquatura, la roba, dopo essere entrata in suo possesso, diventava
detersivo, ciuccia di poppante, lui non la usava, ci faceva solo soldi sopra,
non fuma neanche canne, un bravo padre di famiglia, la moglie tutto sa, di
niente fa finta e mette via i denari, li sotterra, viverli non può ancora,
l’idea è di metter da parte una certa cifra e poi andare ad aprire un fast-food
in germania, loro due e la bambina, che ormai ha due anni e non è ancora morta,
il suo cuore ha cessato di battere al momento del parto, l’hanno rianimata con
le piastre, si è ripresa, ma non voleva mangiare, le hanno fatto le flebo per
mesi, adesso pare tranquilla, ma è cardiopatica, le danno dieci anni di vita,
l’elettricità delle piastre ha leso i suoi vasi sanguigni e li ha resi sottili,
ha le arterie soffiate a murano, vivrà invece fino a sessantaquattro anni e a
darle la morte sarà un vecchio signore, la investirà con l’iso grifo, durante
una parata di auto storiche a fès, lei in bicicletta graziella azzurrina, marca
atala, un modello del millenovecentosettanta, col cestino originale di dietro,
tenuta benissimo, regalo di uno zio, per l’equivalente musulmano della cresima
o della prima confessione, non ricordo più bene, vorrei avere un discorso da
fare, se è solo da fare o da fare da fare, anche in tal caso, non direi
necessario, gli stucchi ai soffitti mi ricordano la mia prima casa, l’unica
amata, la casa dei sogni d’infanzia, la corte il roseto la vigna e oltre i
campi le siese, i nidi dei merli, i giochi a pallone, le lucciole sullo
sterrato, il ghiacciolo col temporale, storie di fantasmi e gelidi vampiri al
gusto arancia o jumbojet e i coni a ottocento lire l’uno, i gran rico al
whisky, la coppa tiziana, la coppa del nonno, spagna 82, paolo rossi e tardelli
e gentile e bearzot, vincono i mondiali di calcio, pertini se ne viene in
tribuna, visibilmente nel pieno di una svagata di etere o laudano, sono i tempi
di reagan, simpatia delle masse, il primo presidente burattinato dall’alta
finanza, se non altro in modo tanto palese, un cagnetto di facciata che firmava
tutto quello che gli si chiedeva di firmare, questo sì, quest’altro neanche in
cambio del più grande giacimento di carbone del mondo, sempre con un’aria tra
l’ebete e il boia, serie b perenne nei graffiti della storia e piezz’emmerda se
gli dai la sedia elettrica uno così, una pena capitale non gliela ritornerebbe
indietro tanto volentieri sulla coppa alla tedesca, neanche se si fosse rotto
il naso contro il muro, nel solenne moto d’omicidio, il rassegnato compiersi
dell’essere a benzina, desolato firmamento marchiato dolce & gabbana,
parfum de france, viagra naturale venduto sulle bancarelle, un esperimento
nucleare nel cuore di parigi, a place pigalle o sulla torre della total, dentro
le piramidi del louvre, nel cesso di un ristorante della banlieu e se sei
ragno, la tela prenderà, se sei mosca prima o poi finirai in trappola, se non
della tela del ragno, di un parabrezza o di una di quelle lampade blu che
attirano e uccidono gli insetti con un discreto crepitio di friggitrice, io non
dico sì all’internazionalità, perché sono un contadino travestito, ho lavorato
il tabacco con mio zio, il fratello di mio nonno, ho bevuto latte di mucca
ancora e per fortuna, ho sentito pippo nelle storie di mia nonna e di gaetano,
lo so bene, basta poco per cambiare gli equilibri della storia, meglio piangere
o morire col sorriso stupefatto, col marocco c’è l’estradizione, ma non è detto
che sia un posto dove non ci si può nascondere, una casa in marocco non sarebbe
un controsenso, come pensiero per chiudere l’anno, dopo l’omicidio si occulta
il cadavere se si vuole trasformarlo in una sparizione, altrimenti lo si lascia
per strada come in qualsiasi altro posto, da questo punto di vista vale il
codice più vecchio del mondo, fai da te e velocemente, fai dell’arma,
qualsiasi, rivoltella o pugnale non fa
differenza, tre pezzi e gettali in tre punti diversi almeno a cinquecento metri
uno dall’altro distanti e tornatene subito a casa riprendendo a fare quello che
stavi facendo un attimo prima di uscire, torna al tuo puzzle dei girasoli, se
sei stato bravo, non sarai stato via più di venti minuti, torni e riprendi a
comporre il tuo puzzle, o quel cazzo che stavi facendo, e va’ avanti per almeno
tre ore, alla fine di sembrerà di non essere uscito, e perché dovrebbero venire
a cercarti, importante avere meno contatti possibili con la vittima, l’ideale è
colpirla alle spalle, per evitare di vederla in faccia, così rimorde di meno e
anche l’inconscio registra ben poco, cammini, lo incontri, lo fai e ritorni,
queste le quattro semplici leggi di un assassino di successo, inevitabilmente
solitario, quasi sempre senza fissa dimora, nascosto in attesa nella prima
giungla l’hashishin aspetta che la sua vittima venga a cagare, lo stritola con
un filo di ferro rivestito di seta, gli ruba le gioie e i denari prima di
tornare a confondersi nel formicaio di carovane dirette a calcutta, se fa
resistenza gli piazza lo stiletto nel fegato, in aiuto a crepare, ma di solito
nelle sue mani, il filo di ferro o il foulard di benares, bastano e avanzano,
il più gran serial killer del mondo era un thug, un palmares da pippo inzaghi
del morto, niente male quello di milwaukee, manson innominabile a tutt’oggi, di
kuklinski ed onoprienko a fargli compagnia, mettiamoci l’agnello abel e furlan,
il culto ludwig, stima per lo stile crocifissi conficcati in collo ai preti,
sul pendio di monte berico, zingari e drogati, bruciati col petrolio e pietro
maso senza speme, sindona e il vaticano, il caso calvi, i frati neri del
nazismo, i riti mistici dell’aquila uncinata, il dio bipenne, nel cuore del
soldato ritornato dall’iraq che ha fatto un figlio con un dente ogni quarto
d’ora e senza un occhio, due dita di una mano e mezzo piede fino al primo
metacarpo, sono sicuro, ancora non è tutto, il peggio ha da venire, scenari da
kenshiro, malattie di generazioni nuove curate con veleno, lo dice celentano,
respiro l’atrazina, quando mangio una pera rischio più che a farmene una, la
carne pompata con gli estrogeni, gente che mangia mucche impazzite e i campi
avvelenati, il disastro dell’icmesa a seveso nell’italia lombardia, la
longobarda, dei principi mastrota, delle soubrette di primo pelo, dei culi alle
nove di mattina e in giro pure, sui caffè nei labirinti di metano e gas silvestri,
liquefatti dalla figa mattutina, non sapevo che ci fosse da pensarci, ma più
pensi se non pensi, allora è inutile pensare, meglio darsi al tiro con la
fionda o allo sci d’acqua lontano dagli scogli, senza un porto in cui approdare
alla voce inconcludenza, mi compiaccio, sono un mulo della penna dispettosa,
indomabile attrezzo in mano ad altri che non io, veicolo corporeo di un mancato
contatto, se non altro, nei punti riflessivi, come un chiodo che non penetra
nel muro, gli sfugge di continuo, non si riesce a possedere ed è impossibile,
un assurdo inapplicabile, un lenzuolo con una grossa macchia al centro, è il
ricordo di una merda, la sua ombra, non sapevo che potesse averne una, più che
ombra è la sua impronta, di sindone impregnata, nel marocco verso il sud,
binari muri e meschini fermi al palo, nessuna donna in stato interessante,
chiuse in casa non appena s’intravvede, non dar scandalo di se è da sempre
necessario e una donna piena è donna impura, un otre pieno di succhi
oleodoranti, se lo buchi esce il grasso della terra e colla di placenta, e un
aborto di un bambino verde rame, abbandonato sotto un albero di argan, la madre
morirà dopo due ore, nel letto della suocera, coperta da una pelle di caprone,
dentro un letto di fibre intrecciate, prima dell’indipendenza, da un artigiano
mogador, il nonno del bambino, interrotto da un rampino, che lo tira fuori
intero, morto e freddo come un sasso della luna, del pallido satellite porta in
dono lo specchio senza macchia di esser nato, di un colore rosa antico, il
ricordo di un salone, tavolini e tovaglioli ricamati, ecco choukri e jean
genet, accomodarsi su sedie zoppe, osservando dall’alto in basso, le signore
ingioiellate, i mariti funzionari dell’acqua di colonia più costosa, l’eau de
mirre e di beauté, sul passage celiniano rotolo come un bidone inseguito da un
ragazzo o da un bambino in brache corte col berretto bianco e nero con lo
sporco sotto le unghie, così, tra colline e grand taxi, allo stesso modo rotolo
colline e viste atroci sull’atlantico, non trovo le posate, vomito un apizza
dopo un joint, a sidi ifni la graziosa, peccato il poco tempo, bisognerebbe
stare almeno un mese via, sto facendo un tour de force, vedo un cazzo, vado
solo verso sud, come sempre di continuo stando attento a non mettere radici,
incurante delle spore che rilascio, questo è il viaggio degli ismael, tutti si
chiamano così, anche il figlio di aziz lo spacciadroga, un bravo scolaro,
ignaro dei traffici mandrilli del padre, perché anche un bel vizioso, la madre
ne avrebbe da raccontare, quando la porta della camera si chiude dopo una
giornata intensa di lavoro, è notte e dalla strada giungono rare voci, fruscio
di motori sulla carrozzabile, aziz e le sue strane inclinazioni, mai pagato per
scopare, lo considera un punto di guadagno sull’onore, tromba la moglie e ogni
tanto cavalca la cognata, alla somarella, in piedi, addosso al frigo, quando
suo fratello è in mare a pesca, la arpiona solitamente in tarda mattinata,
lascia il ristorante per due ore ed arriva a servire il pranzo bello rilassato,
la moglie, casalinga vecchia scuola, sgama e tace, incarta e tiene in casa, da
parte, si sa mai, del porco non si butta via niente, così si dice che l’asino
più bello del mondo, uno stupendo asinello egiziano nel fiore degli anni, stesse
brucando un prato d’amore, cosparso di asfodeli arancioni, belli e buoni come
una mamma, il lazzarone non si accorge che tra i fiori ci sono delle api e così
ne mangia una e lei lo punge sulla lingua un momento prima di morire,
l’asinello salta e fugge, sciorinando tutto il campionario di bestemmie del suo
giovane repertorio, ben fornito, va detto, non mancano gli strali contro gli
dei antichi, contro iside ed ammone, una dedica affettuosa a ptah e a tutto il
loro olimpo inteso come zoo di quarta mano, un paio di frecciatine ad allah e
una shakeratina al papa bianco da fare paura, le api che volevano pungerlo in
coro, immolandosi a loro volta per vendicare la compagna caduta, rimangono
incantate dallo sfoggio di tanta acerba bellezza gioventù, da non riuscire più
a pungerlo, torneranno a raccogliere polline per il bene comune, l’asinello ne
avrà per un po’, per adesso tiene la lingua in ammollo, deve tenere sempre la
bocca aperta perché la lingua si è gonfiata a tal punto da non starci più
dentro le mascelle, perché questi echi d’india quando sento parlare solo
francese e olisadebe à la santé, risate festa, musica in piazza, giovani ninfe
tirate da slurpo, nel sorriso della notte dei lampioni e dei tamburelli, spore
di kovalam giunte a essaouira, vomito purificatore, fin dalla mattina, latte e
mandarini e poi ore di strada a tornanti, in sette dentro mercedes primi anni
ottanta, sole battente, stelle sui finestrini, col cappotto di lana sto bene,
non sudo, un soffio d’aria, la notte fa freddo, aziz sta chiudendo la tavola
calda e proprio mentre si china per chiudere la serranda coi lucchetti, gli
sparano non una, non due, ma tre volte a un orecchio, la sua testa è sparsa un
po’ ovunque sulla saracinesca, la strada, il telefono pubblico è un trattato di
neurologia, i neuroni hanno preso il volo sull’asfalto e la polvere, il cranio
scatoletta esplosa un po’ qua un po’ là, un dente sopra un coppo, l’occhio
dentro un pozzo, aziz ti hanno inculato perché tagliavi troppo la roba e il tuo
sogno di andare in germania te lo sogni, lei no, lei porterà via il bambino e
si insedierà nella comunità turca di mannheim, la bimba dalle vene di cobalto
rimarrà in marocco e crescerà tra gli
spasimi in un collegio di tangeri, la madre diventerà donna delle pulizie prima
di un grande imbottigliatore, tale karl olkhenhaus, che si dice vivesse in una
casa senza stanze con gli elettrodomestici montati su rotaie, poi del console
del myanmar e la sua consorte, i loro due bambini, eleanor e jup, due complici
bricconi degli spuntini di mezzanotte abbandonati per caso dalla serva prima di
metterli a dormire, zia oujida è diventata, raramente si ricorda di aziz, non
pensa a risposarsi, ismael cresce sano e forte, ha dodici anni, non fuma e non
mangia carne, una volta però si è fatto fare una pera, per gioco, per
scommessa, a momenti ci lascia le penne, è forte nel giavellotto e in porta a
pallamano, eccelle nell’analisi grammaticale, come suo padre, la madre invece a
scuola, mica andata, elementari e ancora ancora, pronta a farsi ingravidare,
aziz l’ha scelta e lei c’è stata, ma aziz adesso è morto e lei fa la zia ai
figli di consoli ed imbottigliatori, ci passa il natale, li veste li lava, gli
fa la merenda, gli lava il lenzuolo macchiato ogni notte, ogni tanto si fa un
pianto in camera sua,, perché non ha una sua vita, si affeziona a figli di
sconosciuti, non ha dei veri nipoti, ismael dei fratelli, ma lontani cugini e
anche forse, senza regio diritto di mettere bocca alcunché, in quei casi si fa
un bagno caldo e si spara un ditale da urlo, la grinta si scioglie, le si
sgonfia la pancia, torna per un attimo a vedersi anche figa, poi scuote la
testa e va ad asciugarsi nella tana degli scorpioni, tutti conoscono la storia,
la rana offre un passaggio a uno scorpione bisognoso per attraversare il fiume,
a metà del fiume [...] e tu non lo sapevi che io ero uno scorpione? sia buon
anno a tutti voi, il duemiladodici vi porti il minimo della pena, che finanza e
mostri sacri, non vi intralcino la via, buoni appalti ruberecci, vitalizi senza
scazzi, inculate cordialmente col sorriso lo prendete, compromesso voglio dire,
un duemiladodici pieno di compromessi a tutti quanti dal profondo del mio colon
e della pelle della testa che si spella, che il dubbio non vi sfiori, la
diversità vi schifi, aggregatevi in gruppi solidi e gerarchie territoriali, non
cogliete l’opportunità d’essere quando tutto ciò che potete, è avere, di ritorno
un dì sospetto vidi un gufo appollaiato sul balcone di mia zia, era pieno
giorno, io ero piccolo, gli tirai un sasso e quasi lo colpii, lui girò appena
il capo dalla mia parte e il suo volto mi parve trapassarmi, ancora adesso,
alla paura di vedere, associo il gufo, quella faccia senza faccia, e magari
chissà, per qualcuno può essere un soffio tiepido sulla fronte, un amorevole
sollievo di un istante eterno, sussurrato sulla spiaggia di tarfaya, il biplano
di saint-exupery, il marocco fa scrivere, non è un caso, non è sola
eccitazione del momento e non so cosa e
se, forse gli spazi grandi, ma già da prima, forse il vento del deserto
rimescola le idee, risveglia gli istinti rattrappiti, la pagina recita il trentanove
con paura di fermarsi, di non sapere più che altro dire, un cazzo, d’altra
parte è dall’inizio, non è cambiato niente, non scrivo di mia propria volontà,
la mano stringe la penna, il quaderno si adagia ovunque e si apre come una
troia, aspetta solo inchiostro fresco che la riempia, la pagina bianca dopo
mesi di solitudine trova un compagno, sottile sottile un essere amorfo, un poco
distratto, senza troppe radici, un paltò e un cappello per convincersi d’esserci,
una solitudine da ballerino sulla corda, pochi rischi tranne quello di campare,
il vento freddo del deserto, notturno tra le gobbe dei cammelli, lo so, sono
dromedari e bevono una volta l’anno, non affondano la gambe sulla sabbia, sono
come vascelli nel mare delle dune serpentine, parto all’alba da tarfaya, come
un amante fa ritorno alla sua famiglia disperata, deposita un bacio sulle
labbra della favorita ed esce nel gelo mattutino, per convincersi tra il
ritorno e la corda, basterà l’immagine del figlio, dentro il portafoglio a
colazione, nato per sbaglio, per volontà dei nonni, convinti antiabortisti, poi
i due si sposeranno e il matrimonio durerà, perché lei sa troppo bene, il suo
uomo si prende delle pause tra un lavoro e l’altro, ma si tratta di tornare e
trovare il piatto pronto, non si mangia il reggicalze, le mutande con il
taglio, la vaselina non condisce l’insalata, serve una brutta femmina per
dormire sogni belli, di quelle che hanno a tedio il sesso, e lo fanno con gusto
solo dopo avere detto mille volte uffa, una che non te la porta via nessuno,
che non guarda nessuno e crede che questo sia il pensiero di tutti, l’innocente
verità della bruttezza, stanca esigenza di essere messi da una parte, un
giovane cantante di musica popolare sgranocchia bagigi sul piazzale di una
pompa di benzina in mezzo al deserto, la banda lo ha scaricato, stanotte hanno
suonato in un riad a laayoune e lui ha tirato addosso il microfono ad un
francese che fischiava, li hanno sbattuti fuori e non hanno preso un dirham, è
la terza volta e i suoi compagni non fanno musica per beneficenza, è il loro
lavoro, basta, con loro ha chiuso, si accende una sigaretta e se la ride,
troverà un’altra banda lontano dal sahara, dove la sua fama di testa calda è
ginta ovunque, aspetta il bus per casablanca, tenterà di entrare in contatto
con la comunità artistica, scrittori e cineasti, oltre ai musicisti e chissà,
magari tra qualche anno duetterà con khaled in we are the world davanti alle
telecamere della televisione nazionale, libero dai telefoni cellulari, ormai
non c’è più un angolo di mondo, le suonerie terrificanti impazzano, nessuno le
proibisce, assieme a quelle più tradizionali, identiche in gabon come in
argentina, un tuareg di elkifra ha barattato venti chili di datteri per un
samsung con fotocamera integrata, lo stesso modello comprato in corso libertad
a buenos aires da un manager di un’industria manufatturiera, sicario della
mafia, impegni di lavoro permettendo, domani volerà in etiopia, il mese
prossimo sarà a vientiane, senza perdere di vista peppo aiello, scappato da
palermo dopo avere cantato al giudice istruttore, rifugiato come un topo in una
squallida pensione di rosario, e non rompetemi le palle con tutti questi
personaggi, mezze bozze, sussurrati e abbandonati, essi detengono il discorso
sfilacciato, io registro solamente, con la bic di marrakech, metto male in
prosa immagini, riflessi nello scorrere del fiume, in principio era il nilo,
poi il brenta ed il lambro e alla fine un canale di sfogo, dove una seppia
muore asfissiata dall’olio motore, il perduto orizzonte, l’iride nell’occhio
chiuso per metà, a fossò, vicino al cimitero dei cani, una vedova porta un mazzo
di gladioli al suo charley, pechinese morto ammazzato da uno scooter, investito
a centotrenta, segato in due dal carrarmato della ruota, le budella sull’asfalto
liscio, lavato dalla pioggia di novembre, fredda e gelida, fronte che scotta,
la padrona sola in casa, un febbrone da cavallo, non ha chiuso il portoncino,
charley esce ed attraversa, si sdoppia, neanche il tempo di latrare, un vicino
dal ritorno dal lavoro, recupererà la testa intatta, la ripone in una cassa e
il giorno successivo lo dà alla vedova mackenzie, sotterrato senza alcuna
cerimonia, perché un po’ se l’è cercata, un riflesso di belletto sulle unghie
pollicione, bella mamma di tan tan, assomiglia a ronaldinho eppure ha grazia e
nutre il suo bambino a mandarini, la ciuccerei da capo a piedi, dopo doccia a
cento gradi, sia ben chiaro, ha l’odore dell’oliva e sono i geni, gli occhi
grandi sanno e preferiscono tacere, così si invecchia, si diventa grandi e le mire
giovanili, i grandi progetti di grandezza, si ricordano di te, spiando da
dietro lo scaldabagno, nell’occhio della lavatrice che rumina, mentre girano i
pannolini e le cavità nel cesto e quando ha finito si ferma, ho mangiato stamattina
coi soldati daga daga, gli africani ho scritto t’amo sul machete, tanto gli fa
di toglierti la vita o portarti via un orecchio, una mano, mezzo piede,
mercenari, sventolano i loro schidioni come girandole di benvenuto, se ne
fottono, prendo chi prendo, salve, ti porto via una guancia, ti taglio una
fetta di cranio, è lo stesso, il sangue li eccita, facciamo a chi è più
crudele, giochiamo a stuprare un neonato, tagliare la testa a un bambino ed
usarlo come pallone da volley, di più, dare prima sua madre in pasto ai
kalashnikov, nel mattatoio della chiesa centrale, i banchi riversi di sangue,
bambini soldato fanno collane coi denti dei morti, il più vecchio di loro li
droga, per lo più cocaina, dritta come un missile in vena, due metri più in là
le cucine, sistemate sopra un mucchio di tibie, impilate con ordine, i machete
ballano il tango, a chi fa la mutilazione più estrosa, una mano tagliato per
lungo, una chiappa tagliata di netto, l’altra intatta, ascoltando la musica
hip-hop, puoi fare tutte le cose che vuoi, purché siano atroci, una scusa la si
trova tranquillo, trancia i tendini con la mannaia, questa qui ha perso il
filo, l’arrotino dov’è, dacci dentro coi denti, bere il sangue ti rende più
forte, svelto, quello ha il cazzo più lungo del mio, tagliarlo via subito e
darlo ai babbuini, vediamo come s’ingegna a pisciare, se accuccerà come le
donne se non vuole bagnarsi i ginocchi, se non muore prima di cancrena alle
palle, la fame inacidisce, urlano le budella e le azioni ne risentono, ecco le
atrocità, i bagni di sangue, il massacro senza sosta nelle zone di guerra, che
mai si pacifica, non cambia mai niente, in niger si crepa, sui monti del ruanda
si addestrano scimmie a sparare da sopra le piante, dalle mangrovie, il ruolo
di guardia forestale è un’ottima copertura, ma attenzione alle trappole e ai
turisti, se ammazzi un gibutiano va bene, un americano ti inseguono fino al salto
del morto o in tasmania oceania, il prezzo non è mai quello giusto, come i
foulard che variano a seconda della scritta, stesso materiale, stesso disegno,
cambia l’etichetta e nient’altro, le macchine per produrli inquinano e
sforacchiano lo strato di ozono, serve una signora epidemia, per portare la
quantità di abitanti a un livello accettabile, l’aids è servito a ben poco,
bisogna spremersi di più le meningi, un virus letale trasmesso dalle zanzare,
che uccida in uno due giorni, come atrazina benzoato o liquame di cromatura
concentrato in un goccio, dapprima partano i nervi e i centri della volontà,
poi la riorganizzazione dei tessuti degli organi ciechi, infine il polmone si
sgonfi e il cuore la smetta per sempre di piangere, i nomadi torneranno alla
vita degli avi, a pascolare capre in pieno deserto, macinando chilometri a
piedi, sotto il sole di fonderia, niente più prada, pizze a domicilio, avanini
in maniche corte sulle terrazze d’estate, scafandri per tutti i civilizzati,
impauriti dal morbo, non c’è insetto che tenga, le zanzare le puoi mica
fermare, basta un gesto e la prostituta si affaccia, appoggiata al finestrino,
le espressioni del viso non si notato più, la voce è amplificata da un
microfono applicato sul casco, non si tromba più in macchina, troppo ingombrante
la tuta, la signora ti porta su in camera, non esiste più il petting, se ti
tira va bene, altrimenti passi la mano, uno sportelletto sulla tuta all’altezza
del cazzo uno in corrispondenza della fica, qui sta l’unione, il contatto
velato di lattice e plastiche a norme ce, astronauti del sesso di strada,
palombari di un futuro possibile, pesanti zavorre morenti, impassibile il sole
li guarda affannarsi, come un mitra puntato di luce accecante, è la strada del
tempo che scorre, viaggia su gomma e rotaia, gli scafi sobbalzano sul mare dei secondi, quando il tempo iniziò la
sua ruota a girare senza speranza che avesse una fine, un sincero moto d’invidia,
gli anni trenta del novecento, a patto di essere nati in europa, figli di
banchieri o di elpidio renault, le officine al di là della senna, le carrozze
trainate ai cavalli, le nuove carriole di ferro, prima della comparsa della
plastica, vetrolegnoacciaiocemento, borse di iuta o di pelle, cotone importato
dalle indie, un piroscafo fa il giro del mondo, ci sta un po’, ha un’avaria
sopra i mari del sud, rimedia con del filo di rame e un guscio di tartaruga, è
un regalo del padre, un augurio di buona fortuna, è morto di un cancro all’orecchio,
una forma rara del male, frequente negli asini, assente nei pesci, dove la
causa principale di morte è la pesca intensiva con gli ecoscandagli, mattatoio
a colpo sicuro e poi un giorno mangeremo le barche, i frutti degli alberi
maestri, tagliatelle al tangone, tovaglioli di dollari, per lavarsi la rogna
uno shampoo al vetriolo, quanto poco rispetto per il mondo che ci è dato
abitare, un dare un avere, un interscambio continuo e meno si dà più si fa il
suo interesse, cagatori di plastiche e fumi, ci prendiamo la purezza degli
elementi, diamo in cambio cemento e aromi alla menta, velenosi come bile di
cobra, non è tempo di perdersi in chiacchiere, il silenzio è l’opzione migliore,
battiamo le mani, sopra il ponte della nave che affonda, una torta allo smog
per finire in baldoria, le montagne spianate dai tunnel, collassano in un
nanosecondo, il ritorno alla minima energia, tre specie vegetali sono il
patrimonio di tutto il pianeta, si salva l’ortica, l’ulivo siriano e il cactus
del gobi, fiorisce una volta ogni cinquecento anni, per cinque minuti, in
occasione del cambio di inclinazione dell’asse terrestre, un passatempo da
geografi, i marocchini vomitano come ubriachi di grappa, soffrono il bus, non
hanno speranza di chiudere un viaggio, senza farsi mancare l’odore acre del
cibo inviato dalla pancia alla bocca, dal rollio delle curve, foderiamoci il
naso col filo spinato, manteniamo i sacchetti di plastica interi, altrimenti la
doccia di bile, altrimenti un lago paltò, da portarsi in aereo, un ricordo del
suolo marocco, campi verdi e magliette coi buchi, un cipresso, solitario,
vigila le rovine al tramonto, siamo soli sopra un suolo macaco, dal culo
spellato dal sole che batte al contrario, da sotto, una pausa per bere dell’acqua,
vado a tangeri a incontrare la bimba, la figlia di aziz abbandonata in
collegio, la mamma le paga la retta e ogni tanto le scrive due righe, figlia
mia, se potevo portarti con me, ma di soldi neanche l’odore, a malincuore ho
dovuto lasciarti, tutte balle, non ha mai potuto vederla, non ha mai sopportato
di avere una figlia, una concorrente tra le mura di casa, quando ha visto i
medici rianimarla li voleva ammazzare, poi ha pensato che non ce l’avrebbero
fatta, invece dopo due mesi le ritornano la stronzetta tenace, con una fila di
indicazioni lunga un chilometro, per cui quando la testa di aziz esplode in
frammenti, non c’è parentela che tenga, in collegio se non hai voluto morire,
in germania col cazzo, se mi crepa dall’oggi al domani, neanche i soldi per il
funerale, tutte balle dicevo, non date retta al suo cuore di madre, denari ne
aveva e li ha usati per i primi tre mesi a mannheim, per pagare una stanza e
comprarsi un lavoro di colf, colazione hommelette à l’hotel, qualcuno lo ha
anche avanzato, si è presa un profumo e un bagnoschiuma alla fragola, l’iscrizione
alla scuola per ismael, oujida sa quello che dice e se mente lo fa per dispetto
o per salvarsi le chiappe olivastre, prudenza africana in europa, madre moderna
e all’antica, il figlio l’adora, eleanor lo ha baciato dopo una partita di ping
pong in giardino, jup scopre in quei giorni le seghe, è una rivelazione, ancora
non sborra, ma capisce come darsi piacere e si infila anche un dito nel culo,
poi lo annusa e non si ripeterà un’altra volta, anzi, parecchi anni dopo,
quando la sua fidanzata prova a ripetere la stessa manovra, nel pieno di una
sveltina, le afferra la mano e la costringe a leccarsi il dito impepato, mai
più, il mio è un culo a cerniera, non ci entra uno spillo, così impari ad
osare, jup ama i piedi, al contrario, non resiste alle scarpe col tacco, alle
unghie colorate di rosso peccato, ama i trentotto con le vene in rilievo, non
ricordo di averlo già detto, se l’ho fatto pazienza, per adesso è soltanto un
bambino, un grafomane, nient’altro che questo, scrivo acini d’uva e li sputo
nella centrifuga delle parole a scommessa, non ritengo di doverlo spiegare, a
volte si passa per scemi a dare un senso alle danze dei polli, dei capretti
odoranti scintille, lei sulla porta per la prima volta mi parla con la sua vera
voce, finalmente si è arresa, è mio compito coglierla, un sette meno in
condotta sessuale, decimali sporcati di sangue, era vergine in culo, una volpe,
cristosanto poteva anche dirlo, adesso al pronto soccorso, sei caduta su un
coltello da pesca, digli, hai cagato cemento, si è rotto l’elastico dietro, vai
a farti disinfettare, ti porto, metto il cazzo nel ghiaccio, mi duole il capo
fungino, la cappella del cazzo infuocata, non siamo faceti, sarà già capitato,
tu vai a metterti i punti, altrimenti ti si allarga lo slabbro e ti viene la
setticemia, muori in capo a due ore, come la moglie di essien, giocatore del
fulham, dopo un’orgia in famiglia, rimasta chiusa nel frigo per sbaglio, era
ora di arrivare a larache dopo diecimila ore di pullman, mi accoglie la nebbia
a plaza d’espana, un vapore umidi che sa di scogliera, se mi siedo a un caffè
tra le palme vedo gente di ogni colore, il real perde due a zero al santiago,
genet riposa a due passi, in due giorni il marocco mi è passato davanti, credevo
fosse più corto, non immaginavo davvero, un successo inpserato, facce, ricordi
e rimpianti, passato, finito, un altro anello per l’egocentrica collana dei
viaggi, andrà presto perduto e si torna nella dimenticanza, in catena, a
imbastire progetti di zucchero a velo, fragili come tele di ragno, a
preservarli dal vento secco dell’ovest, quanto basta a riempirsi la pancia, e
ritornare a curarsi della sofferenza propria, dimenticando l’altrui, in
particolare quella specifica di una tossicomane di tangeri di nemmeno vent’anni,
la vedo sul grand socco, fuseaux neri e scarpe da ginnastica bianche, un
cappottino di nylon le copre il culo, in testa un lenzuolo bianco come un
desiderio d’infinito, mi chiedo se batte e mi rispondo di sì, certo batte,
appena fuori del suo appartamento giù al porto, è bella, ma il suo volto ha
preso una piega volgare, tipica delle forzate del sesso, si vende da tre anni,
ne ha diciassette e da quattro ha incontrato la nera, vende ogni sua cavità per
la polvere, non disdegna sedute di pissing, se il cliente ha palanche, si fa
fare di peggio, ha un ragazzo, jamal, ora è dentro, ha stuprato la vicina di
casa, è scivolato dentro dal tetto, le ha piazzato un coltello alla gola,
voleva solo prendere i soldi, ma si è preso paura, non si aspettava di trovare
qualcuno, l’ha presa per sbaglio, trovata in bagno a lavarsi, non ha potuto
pensare altrimenti, si è calato le braghe, l’ha chiavata mentre lei vomitava,
dentro se la passa benone, ha amici anche tra i secondini, sta meglio che
fuori, la sua ragazza l’ha mandato a cagare, non ha nemmeno presenziato al
processo, ma continua a vederlo la notte, prima di addormentarsi, o nel sorriso
dolce di qualche cliente impacciato, quando scalda il cucchiaio e la roba è
tutta quanta per se, non ha magnaccia, è una dritta da niente, tempo addietro
ha sputato in faccia a un pulè, si è presa otto punti alla testa, ci ripensa
ogni volta che passa davanti alla grande moschea e sa che ne è vals ala pena,
nessuno può dirle cosa è giusto e sbagliato, tanto meno un lecchino di stato, l’unica
legge è nel libro, e parla di misericordia,
EPILOGO
, è un distante
dire basta, veloce schivo epilogo di svago, le storie hanno detto errori a
sufficienza e si sono dimenate anche abbastanza, ora riposano nel sottosuolo,
pronte a riaffiorare il capo di meduse nelle nebbie o solo piccole scintille di
lente braci sottostanti, è tempo di finire, di chiudere baracca, serrande in
dolce attesa, sotto luci spaventose, amplificate dalla pesca del corallo
sottostante un riaffondare, nei fondali della baia del terrore, dell’ignota
sofferenza nel suo fango, nella melma dell’attesa di qualcosa, un waferino, una
tazza di caffè, anche un briciolo di voglia spalmata su una crêpes, e magari
pur che sia, di mia zia, di sua zia, della stella più lontana del nostro
pianeta, da qualche parte dovrà pur esserci, dico io, un diritto inalienabile
di farsi i cazzi propri, una sinusoide, una legge di qualcosa inattaccabile
come la puzza della merda, si parla di libertà, e di che dovremmo liberarci,
chiedere è di per se catena, niente grazie, preferisco altre illusioni, i
salmoni cannibali del golfo sibango, gli stambecchi clonati nel gran paradiso,
le trote mastrote più cheap, i funghi lebbrosi, piuttosto, le masse violente da
stadio, un solitario giocatore di scacchi, alessandro del piero, per fare un
esempio,
Bravo Renzo.
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